lunedì 10 giugno 2013

LIBRI: OSVALDO SORIANO – UN’OMBRA BEN PRESTO SARAI

Titolo: Un’ombra ben presto sarai

Autore: Osvaldo Soriano

Editore: Einaudi

Collana: Einaudi Tascabili - Scrittori

Prima edizione: 1990

Anno di Pubblicazione: 2007

Pagine: 230

Prezzo: euro 11,50

"Lì, rannicchiato tra l'erba, ebbi la sensazione che ormai non esistevamo più per nessuno, nemmeno per noi stessi. Ci rassegnavamo ad accettare prepotenze e assegni senza valore. Ciò che ci attraeva era guardare la nostra ombra crollata e forse presto ci saremmo confusi con quell'ombra".

Diretto a Neuquen, nella parte settentrionale della Patagonia argentina, un uomo si ritrova a vagare per la pampa, senza un soldo in tasca, cercando volta per volta qualcuno che lo avvicini alla meta.

L'ingegnere, conoscerà persone strampalate che viaggiano per cercare fortuna verso mete lontane e che forse, in realtà, vagano in cerca di sè stessi.

C'è un ex acrobata di origini italiane, Antonio Coluccini, che vive alla giornata, di piccole truffe.

C'è una cartomante attempata, Nadia, e un tesoro misterioso.

Un banchiere in fuga, Lem, con le sue delusioni d'amore.

Due sedicenti ufficiali in cerca del loro battaglione di fanteria.

L'ingegnere si sposta tra i paesini di Triunvirato e Colonia Vela, due aggregazioni di nulla in mezzo alla pampa, dove gli abitanti e i ricchi estancieros sono costretti a mettere in palio le loro fortune al gioco pur di movimentare le loro esistenze.

" - Non c'è nemmeno un carro attrezzi?- gli domandai.
- Per farne cosa? Chi viene quaggiù sa cosa rischia - ".

In viaggio sulla Gordini di Coluccini, sulla Citroen di Nadia o sulla Jaguar di Lem, su quelle desolate strade, in cui si può procedere "per oltre un'ora senza incontrare neanche una curva", l'ingegnere si confronterà con le bizzarre esistenze altrui ma anche con il suo passato, lontano ma sempre pronto a riemergere, in qualche modo.

Un libro on the road carico di disillusione e di un imprecisato senso di nostalgia, ma anche e proprio per questo affascinante. Soriano dipinge il mondo degli ultimi nelle tinte opache e slavate della pampa, con un incedere lento e trascinato.

Ritrovarsi ad essere un'ombra… inghiottiti dall'anonimato da cui disperatamente si è cercato, a lungo, di emanciparsi.

"C'è un momento per ritirarsi prima che lo spettacolo diventi grottesco, Zarate. Quando uno è sulla pista lo capisce. Magari il pubblico applaude come impazzito ma uno, se è un vero artista, lo sa".

martedì 4 giugno 2013

LIBRI: E. LUCAS BRIDGES – ULTIMO CONFINE DEL MONDO

Titolo: Ultimo confine del mondo. Viaggio nella Terra del Fuoco

Autore: Esteban Lucas Bridges

Editore: Einaudi

Collana: Frontiere Einaudi

Prima edizione: 1948

Anno di Pubblicazione: 2009

Pagine: 590

Prezzo: euro 24,00

Quella della famiglia Bridges nella Terra del Fuoco, a cavallo tra la seconda metá dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, é un'incredibile epopea, una affascinante storia di pionierismo e di scoperta.
Ma soprattutto é una storia vera, e questa sua genuinitá contribuisce a renderla, agli occhi del lettore, epica e passionalmente coinvolgente.

Era il 1826 quando il brigantino Beagle capitanato da Robert FitzRoy, in missione in Sudamerica con l'obiettivo di cartografare le frastagliate e poco conosciute coste meridionali del Nuovo Mondo, approdava nel sud dell'isola della Terra del Fuoco, dove vennero esplorate baie e scoperti canali, il più importante dei quali era quella lunga e stretta  via di comunicazione che correva nella stessa direzione dello Stretto di Magellano e che delimitava la parte sud dell'Isla Grande de Tierra del Fuego: il Canal Beagle, che prese il nome proprio dal vascello capitanato da FitzRoy.
Che sorpresa quando l'imbarcazione inviata in esplorazione in quella che sembrava solo una profonda insenatura, si ricongiunse al Beagle da sud dopo aver circumnavigato l'isola Navarino!

Dopo aver completato la sua missione in altri lidi e prima di tornare in Inghilterra, FitzRoy ripassò dalla Terra del Fuoco e rapì, con un pretesto, quattro di quegli stravaganti indigeni che navigavano (e sembravano vivere) su canoe di corteccia e dai quali erano stati spesso avvicinati con intenzioni reputate dagli europei non esattamente amichevoli.

I quattro rapiti appartenevano al gruppo degli Yahgan, secondo il nome che venne loro dato qualche tempo più tardi, una delle quattro etnie fuegine insieme a quelle degli Ona, degli Haush e degli Alakaluf. Gli Yahgan (che chiamavano loro stessi Yamana, ossia, semplicemente, “uomini”) vivevano nella parte sud dell’arcipelago fuegino, tra il canale di Beagle e Capo Horn; gli Ona (o Selknam) vivevano nell’Isla Grande de Tierra del Fuego, a nord delle montagne sopra Ushuaia, nell’entroterra e fino alla costa atlantica; gli Haush (detti anche Ona orientali) erano stati invece relegati alla punta sud orientale dell’Isla Grande; gli Alakaluf, infine, abitavano le frastagliate isole occidentali.


Ai quattro giovani rapiti vennero dati nomi assai buffi: Memory Boat, York Minster, Fuegia Basket e Jimmy Button. Il primo di essi morì, mentre gli altri, dopo tre anni di intensa educazione cristiana e dopo essere stati ricevuti niente meno che dai reali di Inghilterra, tornarono in Terra del Fuoco, sempre sul Beagle, capitanato ancora una volta da FitzRoy. A bordo, al ritorno, c'era anche un giovane studioso e naturalista, Charles Darwin, che pur trascorrendo un anno intero, la durata della navigazione, con i tre indigeni, non riuscì a non farsi idee sbagliate e pregiudizievoli sul popolo fuegino: in particolare egli credette che fossero cannibali e che il loro linguaggio fosse incredibilmente povero, tanto da ritenerli la tribú che più si avvicinava a quell'anello mancante della catena evolutiva che tanto cercava per far quadrare la sua teoria evoluzionistica.

Tuttavia Lucas Bridges, che in mezzo ai quei popoli visse per molti decenni, integrandosi fin quasi a diventare uno di loro, esclude totalmente la teoria del cannibalismo (dovuta a suo dire a incomprensioni linguistiche o a vere e proprie invenzioni da parte dei quattro rapiti, a fronte di pressanti richieste degli europei che volevano a tutti i costi sentirsi dire ciò che si aspettavano). I fuegini non mangiavano la carne di avvoltoio perché sapevano che quell'uccello si nutriva di cadaveri, figurarsi se mangiavano carne umana!
Come tutte le leggende che si rispettino, quella sui mangiatori di uomini della Terra del Fuoco si autoalimentò per colpa dell'ego di chi la faceva sopravvivere: "le fosche storie sul cannibalismo fuegino" denuncia Lucas Bridges, erano "divulgate da sedicenti esploratori animati più dal desiderio di figurare come eroi di avventure sensazionali che dal minimo amore per la veritá".

In secondo luogo, la lingua dei popoli locali non era affatto povera, come evidenzia il dizionario Yahgan-inglese, un’opera monumentale (oggi custodita al British Museum), pazientemente redatta, nel corso degli anni, dal padre di Lucas, il reverendo Thomas Bridges. Tutt'altro: la lingua Yahgan era enormemente ricca, come dimostrano gli oltre 30.000 vocaboli presenti nell'opera e il fatto che per certe parole per noi semplici come "neve" o "spiaggia", gli Yahgan avessero un gran numero di termini diversi, in base, ad esempio, al punto di vista in cui si trovava colui che parlava.

FitzRoy lasciò i tre fuegini in una baia dell'isola Navarino, baia Wulaia, insieme a un catechista, il primo vero colonizzatore della Terra del Fuoco, Richard Mathews. Il quale però non resistette a lungo, costantemente assalito e brutalmente infastidito dagli Yahgan, che lo depredarono di tutti i suoi averi. Mathews decise dunque di andarsene e si reimbarcò con FitzRoy, lasciando la gestione della piccola colonia ai tre fuegini "civilizzati".

Ma, evidentemente, tre anni di educazione non erano affatto sufficienti per individui abituati a vivere nell'estremo, e al ritorno del Beagle dai suoi viaggi di scoperta, 15 mesi più tardi, Darwin e Fitzroy trovarono soltanto più Jimmy Button, peraltro regredito allo stato primitivo, con gli altri due che erano scappati con tutti i suoi averi.

Il secondo tentativo di civilizzare ed educare cristianamente quei popoli fu compiuto da un esponente della Societá Missionaria Patagonica, Allen Gardiner, che nel 1850 approdò in Terra del Fuoco, dopo un precedente tentativo infruttuoso. Gardiner e i suoi, che cercavano disperatamente Jimmy Button e gli altri due fuegini "civilizzati", furono accolti dall'esacerbata ostilitá degli Yahgan e furono costretti a fuggire lungo le coste dell'Isla Grande fino a trovare una disperata morte di stenti a Spaniard Harbour, nell'unica baia in cui le condizioni meteorologiche impervie davano loro tregua dall'aggressivitá indigena.

Il diario di Gardiner, ritrovato accanto al cadavere dell'uomo, racconta di questi orribili giorni: eppure il missionario ebbe anche la luciditá per appuntare consigli per i posteri, affinchè potessero avere successo nell'impresa da lui miseramente fallita.
Consigli che accolse il segretario della Societá Missionaria Patagonica, reverendo Despard, che salpò con la sua famiglia, tra cui il figlio adottivo Thomas Bridges, verso le isole Falkland, dove stabilì la base della missione, come da suggerimento di Gardiner.

Ma l'ennesimo tentativo di formare una colonia in terra fuegina, nuovamente alla Baia Wulaia, sull'isola Navarino, finì in tragedia: il catechista Garland Philips e gli altri componenti della spedizione vennero brutalmente assassinati dagli indigeni durante una celebrazione religiosa; a capo degli assalitori c'era proprio quel Jimmy Button che avrebbe dovuto essere il più civilizzato degli Yahgan e che invece aveva unito alla naturale indole aggressiva del suo popolo l'invidia e la gelosia per il fatto che i privilegi concessi a lui 30 anni prima venissero ora estesi ai suoi simili, i quali, da qualche tempo, venivano portati alle Falkland per instaurare relazioni e per far imparare la lingua ai missionari, come da disegno di Gardiner.
Despard e il figlio adottivo Thomas Bridges erano rimasti alle Falkland e sfuggirono pertanto al massacro.

Dopo una tale tragedia, Despard fu vinto dalla disillusione e rinunciò a proseguire la missione, tornandosene in Inghilterra, non prima però di aver impedito la rappresaglia europea nei confronti degli indigeni, che avrebbe compromesso forse definitivamente le ambizioni di civilizzazione degli stessi.
Despard fu sostituito alle Falkland dal reverendo Stirling, il quale, beneficiando proprio di tale lungimirante perdono, diventerá il primo europeo ad avere successo nell'opera di colonizzazione della Terra del Fuoco, rimanendo per 6 mesi nell'insediamento di Ushuaia, creato all'uopo in un luogo strategico, protetto dai venti, dotato di un porto adatto anche alle navi di media dimensione e non troppo lontano dal centro del territorio degli Yahgan.

Thomas Bridges, poco più che ventenne, aveva trascorso metá della sua vita alle Falkland in compagnia di indigeni Yahgan e ormai conosceva discretamente la loro lingua. Quel bianco che scese dalla nave parlando ai fuegini nel loro idioma e che prese il posto di Stirling a Ushuaia fu dunque uno dei fattori umani fondamentali per il successo della missione.

A questo punto Lucas Bridges, che nacque in quegli anni proprio ad Ushuaia, inizia il lungo resoconto delle vicende legate alla vita della propria famiglia in quelle terre. Dalla colonizzazione di Ushuaia alla concessione, da parte del governo argentino, come ricompensa per l'opera svolta, di un appezzamento di terra in cui la famiglia Bridges costruì l'estancia Harberton, la più antica di quelle zone.

Alla morte del padre, i fratelli Bridges dovranno farsi carico della continuazione dell'opera.

Come Thomas era un esperto conoscitore degli Yahgan, Lucas diventerá un amico del popolo Ona, i fuegini dell'entroterra, delle montagne e della costa orientale della Terra del Fuoco, fino a fondare un'altra, enorme, estancia proprio sulla costa sud-est dell’isola, a sud di Rio Grande: l’estancia Viamonte.

Il resoconto che Lucas Bridges fa di queste epocali vicende é fortemente didascalico, quasi in forma di un decennale diario di bordo, ma con lo spirito di un romanzo d’avventura. Del resto é lui stesso, nella prefazione, ad avvertirci che il suo vuole essere un "racconto veridico e senza orpelli", privilegiando la genuinitá del resoconto storico alla fluiditá dell'opera narrativa. Le quasi 600 pagine, fittissime, del libro, giá frutto di un'ampia scrematura, sono sicuramente molte, ma l'assoluto fascino, antropologico ma non solo, delle vicende narrate, le rendono tuttavia leggere e scorrevoli, come quelle di una raccolta di racconti.

I primi capitoli, che contengono il reportage dei primi contatti con i popoli di quelle terre, come sopra sinteticamente riportato, sono indubbiamente i più affascinanti, nonché gli unici a poter essere anticipati a cuor leggero, vista la loro funzione introduttiva delle vicende della famiglia Bridges, queste ultime raccolte nel restante massiccio corpo del libro.

Vicende di una eccezionale quotidianitá, quella rappresentata dalla continua lotta con le difficoltá della vita ai confini del mondo, dove regnano le intemperie, dove procacciarsi il cibo é una delle preoccupazioni principali della giornata, dove le condizioni di vita sono parecchio diverse da quelle cui é abituato l'uomo civilizzato.

La presenza di quei popoli, in particolare gli Yahgan e gli Ona, le cui esistenze sono a loro volta state scosse dallo stanziamento degli europei, é un ulteriore fattore di incertezza: le loro giá turbolente abitudini saranno destabilizzate dall'arrivo di nuove malattie, che li decimeranno sino all'estinzione, ma anche dall'alcool e dalle armi da fuoco. I Bridges si troveranno spesso a dover assumere difficili ruoli di neutralitá attiva nelle lotte intestine tra fazioni o nelle violente faide familiari.

Due popoli tuttavia affascinanti, con le loro curiose usanze e i loro strani riti, con i loro costumi e le loro peculiari convinzioni: "un uomo non doveva essere goloso, perché ingrassando e impigrendosi non avrebbe più avuto successo nella caccia, offrendo agli altri uomini l'opportunitá di dire in giro che sua moglie doveva nutrirlo di pesce. Per altro verso, le mogli di un uomo dovevano essere grasse, perché in questo modo tutti avrebbero portato rispetto al marito, riconoscendo in lui un bravo cacciatore".

L’autore ci racconta davvero tutto di questi popoli: da come gli Yahgan riuscissero a tenere accesi fuochi all’interno delle canoe di corteccia, sulle quali passavano gran parte del loro tempo, al perché solo le donne Yahgan sapessero nuotare, all’origine del nome “Terra del Fuoco”, legato all’avvistamento, da parte dei primi esploratori, di una serie di lunghe colonne di fumo lungo la costa, a causa dell’accensione di fuochi da parte degli indigeni che in tal modo si avvisavano vicendevolmente dei pericoli.

Il suo, dunque, rappresenta altresì un importante documento antropologico, su popoli che oggi, purtroppo, non esistono praticamente più. Il sangue di essi scorre ancora in qualche discendente meticcio, ma quelle usanze e quei riti, quei modi di vestire, di padroneggiare gli elementi e il territorio, di cacciare, che Bridges ci ha raccontato sono destinati a rimanere confinati nel passato ma per fortuna sottratti all’oblio grazie ad opere come queste.

Tutto ciò Bridges ce lo riporta con una cura maniacale del dettaglio e con una sincera attenzione al mantenimento della totale veridicitá degli avvenimenti, preferendo ammettere, in tutta franchezza, di essersi dimenticato un nome o un particolare pur di mantenere al massimo livello la credibilitá nei suoi confronti.

Un libro epico, tra i preferiti di Bruce Chatwin (che anche per seguire le orme di Lucas Bridges si avventurò in Patagonia). Un must per chi decide di viaggiare nella Terra del Fuoco: possibilmente da leggere prima del viaggio (e magari da rileggere dopo), affinchè, una volta giunti lì, si possano provare anche visivamente le sensazioni dei primi pionieri, immedesimandosi in essi e guardando con altri occhi posti mistici e naturalisticamente fantastici come la zona di Harberton, le isole Bridges, il Canal Beagle, le foreste attorno al Lago Fagnano, le montagne a nord di Ushuaia.

Come è successo a me ad Harberton, davanti alla No-top Hill... ma questa è un'altra storia...


martedì 28 maggio 2013

LIBRI: FRANCISCO COLOANE – TERRA DEL FUOCO

Titolo: Terra del Fuoco

Autore: Francisco Coloane

Editore: TEA

Collana: Teadue

Prima edizione: 1956

Anno di Pubblicazione: 2003

Pagine: 176

Prezzo: euro 9,00
 
C’è un uomo grande e amabile, laggiù, nelle terre alla fine del mondo”.
Quell’uomo è Francisco Coloane, secondo la devota presentazione che di lui fa il connazionale e collega Luis Sepulveda, nella sua sentita prefazione. Sepulveda aveva incontrato più volte questo “adolescente dalla barba bianca”, una delle quali è descritta in Patagonia Express (per cui vedi qui). Coloane ha ispirato una moltitudine di scrittori sudamericani e non solo (tra cui Chatwin), e viene giustamente accostato a grandi scrittori di narrativa e di avventura quali Jack London, Joseph Conrad o Herman Melville.
Per Sepulveda, Coloane rappresenta “Lo scrittore che più di ogni altro è riuscito a spalancare le porte su un mondo sconosciuto”, la Patagonia e la Terra del Fuoco, due lande dove regna incontrastata la natura, che l’uomo può limitarsi ad osservare e, come nel caso di Coloane, descrivere.
Ma Patagonia e Terra del Fuoco non sono solo due mondi geografici. Sono due territori che temprano l’uomo a loro immagine e somiglianza. E anche tali uomini sono meritevoli di essere descritti e raccontati:
Nei miei racconti e nei miei romanzi, ho voluto esprimere l’anima dell’uomo cileno, soprattutto quello di Chiloé o della regione magellanea, confinato tra i mari, i golfi, le cordigliere frastagliate e i ghiacciai millenari del Sud, circondato dall’oceano più burrascoso del pianeta. In questo scenario grandioso vive un uomo debole quanto una brezza, e nello stesso tempo forte come il vento dell’Est”.
Francisco Coloane nacque nell’isola di Chiloè, che della Patagonia non fa parte (per alcuni cenni geografici vedi qui), ma che con essa condivide molte caratteristiche, non solo geografiche. Nella sua giovinezza viaggiò a lungo, imbarcato come marinaio, in giro per le estancias come peon.
Viaggiò per necessità e non per diletto, ma questo suo continuo viaggiare contribuì alla sua formazione e a farlo innamorare di quelle splendide terre.
Le terre patagoniche e fuegine sono il filo conduttore dei racconti che compongono questa raccolta.
Il titolo “Terra del Fuoco” riprende quello di uno di questi racconti, il primo, in cui Coloane narra le vicende di solitari cercatori d'oro, i cui rapporti sono segnati dalla diffidenza. Quella dei cercatori d’oro in Terra del Fuoco è una pagina di storia che inizia nel tardo Ottocento e prosegue nel primo Novecento. Una caccia all’oro simile a quella del far-west americano, ma non altrettanto fortunata: pochi si sono arricchiti con tale attività e molti sono quelli rimasti delusi, inseguendo miraggi. Circostanze che hanno portato alla coltivazione di rapporti umani segnati dal sospetto.
Lo scrittore cileno rende magnificamente le emozioni dei suoi personaggi in un contesto in cui fortemente protagonista è il territorio.
Ma i racconti non sono ambientati solo nella celebre isola a sud dello Stretto di Magellano. Molti di essi si collocano in altre regioni della Patagonia, come quello che narra di un’esperienza mistica nella Cueva del Milodon, celebrata da Chatwin in In Patagonia (per cui vedi qui). Una grotta “coperta di stalattiti, come se l’intera caverna lacrimasse in un perpetuo e notturno pianto millenario”.
C’è spazio anche per toccanti storie di eroismo, all’epoca delle rivolte sociali dopo la Grande Guerra, in “Come morì il chiloese Otey”.
Non sono solo i cercatori d’oro quelli che si tradiscono per soldi, ma anche semplici marinai, la cui routinaria realtà Coloane conosce bene per averla vissuta per lungo tempo nella sua adolescenza, e che, anche grazie a tale esperienza, espone in modo impeccabile.
Da Puerto Montt a Puerto Eden: una rotta leggendaria tra i fiordi cileni, verso un posto dimenticato da Dio. Protagonista stavolta un innocente agnellino, guardato inizialmente con occhi famelici dai marinai per poi divenire mascotte della nave.
Gli uomini descritti da Coloane, gli uomini della Patagonia, sono pregni di dignità. I loro valori sono totalmente capovolti rispetto agli uomini di città:
Che me ne faccio dei soldi su quest’isola? Non posso certo mangiarmeli; una pecora, invece, può sfamare tutta la mia famiglia, in caso di necessità”.
Uomini segnati dal territorio e che spesso si rifugiano nel mutismo per fuggire mentalmente da una realtà troppo difficile. Come nel racconto ambientato nell’isola di Navarino, a sud di Ushuaia, l’ultimo lembo di terra abitata prima dell’Antartide, che ha come protagonista un “uomo indecifrabile, immerso nel suo silenzio come un iceberg che mostrava solo la settima parte delle sue dimensioni reali, rugoso e pietrificato come la natura che lo circondava”. Una similitudine splendida, quella dell’uomo-iceberg, con cui Coloane ci ricorda ancora una volta come la natura forgia lo spirito dell’uomo fino a farlo diventare parte di sé.
Una raccolta di racconti di singolare bellezza e l’ultimo di essi, quello sul costruttore del faro, né è un esempio formidabile.
Racconti da gustare in silenzio, con grande concentrazione, per immedesimarsi appieno.
Quelli di Coloane sono racconti che si immergono a fondo nella psiche di uomini temprati dal vento e dall’isolamento di quei posti solitariamente meravigliosi.

martedì 21 maggio 2013

LIBRI: BRUCE CHATWIN – IN PATAGONIA

Titolo: In Patagonia

Autore: Bruce Chatwin

Editore: Adelphi

Collana: Gli Adelphi

Prima edizione: 1977

Anno di Pubblicazione: 2006

Pagine: 265

Prezzo: euro 8,50

La Patagonia!.. è un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”.

Leggere un grande libro, per quanto mitico possa essere e per quanto se ne possa aver sentito parlare, non può non riservare grandi sorprese.

In Patagonia” non sarà forse “il libro simbolo di tutti i viaggi”, come afferma l’editore nella quarta di copertina calcando un po’ troppo l’entusiasmo. È però sicuramente l’archetipo del diario di viaggio contemporaneo, ma anche molto di più.

Per Chatwin il viaggio è un pretesto per raccontare storie e per indagare su un passato misterioso. Questa è la sorpresa più grande che si ha leggendo “In Patagonia”.

Il Chatwin bambino sognava la Patagonia da dove proveniva quel frammento di pelle di “brontosauro”, che in realtà era il milodonte cileno:
Alla morte della nonna finì buttato via, e io giurai che un giorno sarei andato a cercarne un altro per rimpiazzarlo”.

Il Chatwin adolescente, in tempo di guerra fredda, sognava la Patagonia come posto sicuro, come rifugio per sottrarsi all'autodistruzione umana:
Nessuno vorrebbe lasciar cadere una bomba atomica sulla Patagonia”.

Il Chatwin adulto concretizza la Patagonia come viaggio per ricercare i propri legami con il passato… e cercare se stesso:
Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio”.

Meno on the road di quanto si possa pensare, il romanzo di Chatwin acquista spesso la veste di un saggio con caratteri storico-enciclopedici. Un grande lavoro di ricerca e di consultazione di fonti è alla base di lunghe digressioni sull’origine del nome “Patagonia”, piuttosto che sul ritrovamento dei resti del milodonte nel fiordo di Ultima speranza.

Chatwin aveva da tempo in progetto di scrivere un trattato sul nomadismo, che analizzasse la pulsione umana verso gli spazi aperti e il movimento, l’avversione per la stanzialità. Un’opera mai realizzata, sebbene l’ideale di fondo che lo muoveva si possa riscontrare in molti suoi scritti, alcuni dei quali racconti postumi nel saggio “Anatomia dell’irrequietezza”.

Il tema del viaggio è quasi un contorno di un generale spirito asetticamente psicologico che permea ogni frase, ogni avventura narrata.

Tra le vicende riportate da Chatwin, quelle del Re di Araucania e Patagonia, la fuga di Butch Cassidy e Sundance Kid, le rivolte sociali del ‘900. Ma anche tante storie di gente del posto, che ci restituiscono la sensazione della Patagonia quale lontano, malinconico e multietnico micromondo.
E poi, ovviamente, Chatwin ci racconta la storia di Charley Milward, il parente avventuriero che aveva mandato alla nonna quel frammento di pelle “spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci”, che tanto aveva solleticato la sua immaginazione da bambino.

Il viaggio nella sua dimensione umana: storie locali più che mera descrizione di luoghi. Eppure il luogo (o il non luogo) è protagonista assoluto in quanto catalizzatore, ispiratore di tutte quelle esperienze e sensazioni.

Mentre l'autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca che il vento sollevava dalle saline e, all'orizzonte, la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori”.

Vento implacabile, che ti porta via. A volte senti un camion, sei sicuro che sia un camion, ma è solo il vento”.

Chatwin ispira un'idea diversa, molto concreta, di viaggio: quella di avere uno scopo, per quanto effimero e futile (ritrovare il frammento di pelle di milodonte). Uno scopo che è forse in realtà soltanto un pretesto. Ma di pretesti, del resto, ci nutriamo ogni giorno.

Lo stile di Chatwin è asciutto, asettico, con una particolarità importante: la capacità di narrare restando sostanzialmente al di fuori, evitando i personalismi. Qualcosa di sicuramente atipico per un diario di viaggio.

Un libro che cattura, senza che si possa dire bene per cosa, e forse questa è una delle sue forze.

In Patagonia ha un fascino magnetico.

giovedì 9 maggio 2013

LIBRI: ANTONIO PIGAFETTA – RELAZIONE DEL PRIMO VIAGGIO INTORNO AL MONDO

Titolo: Relazione del primo viaggio intorno al Mondo (Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti descritti da Antonio Pigafetta, vicentino, cavaliere di Rodi)

Autore: Antonio Pigafetta

Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform (Amazon.co.uk)

Prima edizione: 1524

Anno di Pubblicazione: 2012

Pagine: 130

Prezzo: euro 6,23

La prima circumnavigazione del globo, compiuta da una spedizione del Re di Spagna Carlo I, capitanata dal portoghese Ferdinando Magellano (e, dopo la sua morte, da Juan Sebastian Elcano) è una delle più grandi imprese della storia della navigazione, sebbene il prezzo pagato per portarla a termine sia stato assai oneroso: delle 5 navi salpate da Siviglia il 10 agosto 1519, solo 2 tornarono in Spagna, la Victoria, dopo oltre 3 anni, e la Trinidad, dopo circa 6 (quest’ultima peraltro senza compiere la circumnavigazione, avendo preferito, una volta giunti alle Molucche, ritornare in patria passando dal Pacifico anziché dall’Oceano Indiano); dei 234 uomini partiti, solo 36 sopravvissero all’estenuante viaggio.
Tra di essi vi era Antonio Pigafetta, nobile vicentino, Cavaliere di Rodi, che si trovava in Spagna nel 1519 quando seppe della spedizione di Magellano, sulla quale riuscì ad imbarcarsi grazie alla raccomandazione del nunzio pontificio che lo stesso Pigafetta accompagnava: “(…) deliberai, con bona grazia de la maestà cesarea e del prefato signor mio, far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e potessero partorirme qualche nome appresso la posterità”.
Studioso di matematica e astronomia, il vicentino entrò presto nelle grazie di Magellano, diventando suo attendente.
Durante la navigazione, Pigafetta tenne un dettagliato diario di viaggio, nel quale riportò minuziosamente “le grandi ed ammirabili cose che Dio me ha concesso di vedere e patire ne la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione”. Il resoconto del viaggio, redatto a partire da tale diario, venne pubblicato nel 1524 nella Repubblica di Venezia. In Spagna, infatti, nonostante il suo trionfale rientro assieme ad Elcano, il suo diario non aveva avuto fortuna e fu anzi occultato per nascondere i meriti che Magellano, un portoghese (!), aveva avuto in cotanta impresa, meriti ben evidenziati nel racconto del vicentino.
La spedizione era volta a cercare una via alternativa (e più breve) per giungere alle Molucche, arcipelago indonesiano ricchissimo di spezie, per evitare la circumnavigazione dell’Africa, le cui coste occidentali e meridionali erano controllate dai portoghesi.
Un proposito, quello concordato con Re Carlo I, che Magellano, almeno inizialmente, tenne per se: “non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa” (a maggior ragione considerando che “li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perchè, se non perchè era Portughese ed essi Spagnoli”).
Dopo una sosta di rifornimento alle Isole Canarie (già dominio spagnolo), le navi attraversarono l’atlantico (dove Magellano dovette fronteggiare il primo di una lunga serie di ammutinamenti), giungendo in Brasile (che Pigafetta chiama “terra del Verzin”).
Il resoconto alterna sicure esagerazioni (o, per lo meno, degli equivoci):
"Vidi molti pesci che volavano"
…a racconti riguardanti le novità del Nuovo Mondo che oggi, dopo 500 anni, ci fanno quanto meno sorridere:
"Queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi".
Dal Brasile le navi si spostarono nell’odierna Argentina. Già prima di partire, Magellano era convinto di trovare il passaggio verso il Pacifico in corrispondenza del Rio de la Plata (dove oggi si trova Buenos Aires), confortato in ciò da una mappa geografica dell’epoca. Ma dopo lunghe ricerche, il portoghese si convinse che così non era e continuò dunque la navigazione lungo la costa sudamericana, giungendo in Patagonia, dove, incontrando i primi rigori dell’inverno australe, decise di svernare in una baia che battezzò Puerto San Julian.
Lungo la costa sudamericana, l’equipaggio aveva incontrato varie specie di animali sconosciuti, tra cui quelli che Pigafetta chiama “occati” (i pinguini), i quali "non volano e vivono de pesce" e i “lupi marini” (leoni marini) i quali "non hanno gambe, se non piedi tacadi al corpo".
Ma incontrano anche diverse popolazioni autoctone, tra cui “uomini che se chiamano Canibali e mangiano la carne umana”.
In Patagonia trovarono invece una popolazione indigena di statura elevata, che in preda ad una romantica forzatura Pigafetta definisce “giganti” (“Li Giganti Patagoni”).
Un dì a l'improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante…
Passati 15 giorni, vedessemo quattro de questi giganti”.
Le popolazioni patagoniche erano invero più alte della media (1,80 m contro la media degli europei dell’epoca che si aggirava attorno agli 1,50 m), ma di sicuro tutt’altro che giganti.
Probabilmente quando Pigafetta riferisce di aver incontrato un uomo “tanto grande che li davamo alla cintura” o esagerava (come quando sostiene che “Certamente questi giganti correno piú [dei] cavalli”) oppure si riferiva, seppure improbabilmente, a un indigeno di altezza notevolmente oltre la media.
L’equipaggio potrebbe esser stato tratto in inganno, prima di vederli effettivamente, dalle impronte che videro sulla terraferma, che risultavano in effetti enormi, in quanto gli indigeni calzavano degli ingombranti mocassini ottenuti con la pelle del guanaco (lama selvatico presente nella regione).
Da ciò deriva, con tutta probabilità (perché c’è almeno un’altra teoria, vedi cenni storici), lo stesso nome dei Patagoni (da pata-gones, piedi grandi in spagnolo) e di conseguenza della loro terra, la Patagonia.
Il capitano generale nominò questi popoli Patagoni”.
Magellano decise di catturare due di questi indigeni usando l’astuzia (visto che con la forza sarebbe stato assai arduo): sommerse le loro mani di doni di ogni genere e a quel punto fece bloccare i loro piedi con delle catene.
Trascorso l’inverno a Puerto San Julian, la flotta (che intanto aveva perso una nave in un naufragio) ripartì verso sud per cercare l’agognato sbocco sul Pacifico. Il 21 ottobre 1520 giunsero ad un promontorio che battezzarono “Capo delle undicimila vergini” (oggi solamente “Cabo Virgenes”) in quanto in quel giorno si festeggiava la ricorrenza di Sant'Orsola e delle undicimila vergini.
A Cabo Virgenes furono mandate due navi in avanscoperta, le quali tornarono dopo alcuni giorni con la gioiosa notizia: avevano trovato la via verso il Pacifico in quello che sarebbe diventato lo “Stretto di Magellano”.
Ecco il resoconto della storica scoperta:
Andando a 52 gradi al medesimo polo, trovassemo nel giorno delle Undecimila vergine uno stretto, el capo del quale chiamammo Capo de le undece mila Vergine, per grandissimo miracolo. Questo stretto è longo cento e dieci leghe, che sono 440 miglia, e largo più o manco de mezza lega, che va a riferire in un altro mare, chiamato mar Pacifico, circondato da montagne altissime caricate de neve. Non [g]li potevamo trovar fondo se non con lo proise in terra in 25 e 30 brazza. E se non era el capitano generale non trovavamo questo stretto, perchè tutti pensavamo e dicevamo come era serrato tutto intorno: ma il capitano generale, che sapeva de dover fare la sua navigazione per uno stretto molto ascoso, come vide ne la tesoreria del re di Portugal in una carta fatta per quello eccellentissimo uomo Martin di Boemia, mandò due navi, Santo Antonio e la Concezione, che così le chiamavano, a vedere che era nel capo della baia.
Noi, con le altre due nave, la capitania, [che] se chiamava Trinidade, l'altra la Victoria, stessemo ad aspettarle dentro ne la baia. La notte ne sopravvenne una grande fortuna, che durò fino a l'altro mezzogiorno, per il che ne fu forza levare l'ancore e lasciare andare de qua e de là per la baia. A le altre due navi li era traversia e non potevano cavalcare uno capo, che faceva la baia quasi in fine, per venire a noi, sì che le era forza a dare in secco. Pur accostandose al fine de la baia, pensando de essere persi, vitteno una bocca piccola, che non pareva bocca, ma uno cantone, e come abbandonati se cacciarono dentro, sì che per forza discoperseno el stretto; e vedendo che non era cantone, ma uno stretto de terra, andarono piú innanzi e trovarono una baia. Poi, andando più oltra, trovarono uno altro stretto e un'altra baia più grande che le due prime. Molto allegri, subito voltorno indietro per dirlo al capitano generale.
Noi pensavamo fossero perse, prima per la fortuna grande, l'altra perchè erano passati dui giorni e non apparevano, e anco per certi fumi che facevano dui de li sui mandati in terra per avvisarne. E così stando sospesi, vedemmo venire [le] due navi con le vele piene e con le bandiere spiegate verso di noi. Essendo così vicine, subito scaricarono molte bombarde e gridi; poi tutti insieme, rengraziando Iddio e la Vergine Maria, andassemo a cercare più innanzi”.
Le navi giunsero al Pacifico in corrispondenza di quello che non poteva chiamarsi altrimenti che “Cabo Deseado”.
Dopo l’ennesimo ammutinamento, una nave fece dietrofront, come peraltro era stato proposto, per chi avesse così voluto, da Magellano ai comandanti.
Le tre navi rimaste navigarono nel Pacifico per oltre tre mesi. La traversata fu particolarmente gravosa, anche perché, secondo le ipotesi di Magellano, avrebbe dovuto durare solo un mese: malattie e carenza di cibo decimarono l’equipaggio, che visse in condizioni disperate, prima di raggiungere le Isole Marianne. Qui gli europei si dovettero confrontare con l’odiosa attitudine al furto degli indigeni, che portò ad alcuni scontri.
Le navi ripartirono e giunsero nelle Filippine, dove si fermarono per diversi mesi e dove tentarono un’opera di conversione dei sovrani locali, con alterne fortune. Quando uno dei Re decise di sottomersi alla corona spagnola scoppiò una rivolta nell’isola di Mactan, per sedare la quale Magellano decise di usare la forza. Nei violenti scontri che ne seguirono l’ammiraglio perse la vita. Era il 27 aprile dell’anno 1521.
I sopravvissuti fuggirono nel Borneo, rimanendo oltre un mese a Brunei, per poi giungere infine, con due navi e con un equipaggio decimato, alle agognate Molucche. Come detto, le due navi si separarono scegliendo due strade diverse per il ritorno alla madrepatria.
Pigafetta rimase nella nave che portò a compimento la circumnavigazione del globo, attestata da una curiosa scoperta: avendo superato la linea del cambio di data, non appena si trovarono a confrontarsi su che giorno fosse, i reduci scoprirono che la loro data (di cui erano assolutamente certi) era di un giorno anteriore.
Commettessimo a li nostri del battello, quando andarono in terra, [che] domandassero che giorno era: me dissero come era a li Portoghesi giove. Se meravigliassemo molto perchè era mercore a noi; e non sapevamo come avessimo errato: per ogni giorno, io, per essere stato sempre sano, aveva scritto senza nissuna intermissione. Ma, come dappoi ne fu detto, non era errore; ma il viaggio fatto sempre per occidente e ritornato a lo stesso luogo, come fa il sole, aveva portato quel vantaggio de ore ventiquattro, come chiaro se vede”.

La “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” è configurata come un lungo resoconto indirizzato “a l'illustrissimo ed eccellentissimo signor Filippo de Villers Lisleadam, inclito Gran Maistro di Rodi”. Un resoconto strutturato come un reportage socio-geografico, come peraltro ben si evince dal titolo originale “Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti”.
Un documento di un’importanza enorme nella storia delle scoperte e della navigazione, sebbene di certo non brilli per meriti prettamente letterari: lo stile è infatti molto didascalico e poco scorrevole. È inoltre molto ripetitivo, soprattutto nelle descrizioni dei vari popoli indigeni, per i quali l’autore usa spesso i medesimi termini, generando alla lunga una sorta di cantilena (“Questi populi vanno nudi come li altri”; “Vanno nudi come li altri”; “Questi popoli de Pulaoan vanno nudi come li altri”…).
Vengono descritti molti usi locali, a volte curiosi, altre raccapriccianti, come quello che impone alle donne di Giava di bruciarsi vive alla morte del marito:
quando uno uomo de li principali de Giava Maggiore muore, se brucia lo suo corpo: la sua moglie più principale adornasi con ghirlande de fiori e fassi portare da tre o quattro uomini sovra uno scanno per tutta questa villa, e ridendo e confortando li suoi parenti, che piangono, dice: non piangete, perciò [che] me ne vado questa sera a cenare col mio marito e dormire seco in questa notte. Poi è portata al fuoco, dove se brucia lo suo marito, e lei voltandosi contro li suoi parenti e confortandoli una altra fiata, se getta nel fuoco, ove brusa lo suo marito. E se questo non facesse, non saria tenuta donna da bene, nè vera moglie del marito morto”.
Non mancano i racconti “piccanti” delle abitudini sessuali degli indigeni, alcune per il vero parecchio bizzarre e singolari.
Il documento è sicuramente interessante, anche se a volte un po’ faticoso da seguire (e in ciò l’italiano vetusto, del ‘500, di Pigafetta non aiuta per niente).
Forse sarebbe meglio affrontarlo con una base alle spalle, ossia dopo aver letto, da altre fonti meno difficili da comprendere, i rudimenti del viaggio di Magellano, così da agevolare poi la comprensione del testo e goderselo appieno.

venerdì 3 maggio 2013

LIBRI: LUIS SEPULVEDA – PATAGONIA EXPRESS

Titolo: Patagonia Express

Autore: Luis Sepulveda

Editore: Guanda

Collana: Le Fenici tascabili

Prima edizione: 1995

Anno di Pubblicazione: 1999

Pagine: 128

Prezzo: euro 7,50

"Il sole tramonta a ovest, si inabissa nel Pacifico, e i suoi ultimi riflessi proiettano sulla candida pampa l'ombra del Patagonia Express che si allontana in senso contrario, verso l'Atlantico, là dove iniziano i giorni".

Il Patagonia Express (da non confondere con l'Old Patagonian Express, il Viejo Expreso Patagonico di Esquel, noto anche come "la Trochita" e reso noto dall’omonimo romanzo di Paul Theroux) è il treno più australe del mondo. Viaggia dalla città mineraria di Rio Turbio, sul confine andino con il Cile, a Rio Gallegos, sull'Atlantico.

Quella sul Patagonia Express è una delle tappe del lungo viaggio che Sepulveda intraprende nel sud America. Un viaggio progettato in un caffè di Barcellona con Bruce Chatwin, quando quest'ultimo era già diventato celebre per il suo diario del viaggio compiuto "In Patagonia".

- Quando partiamo, cileno?
- Non appena me lo permettono, inglese!

Sepulveda, esiliato dal Cile a seguito del colpo di Stato di Pinochet, ottenne il permesso per ritornare in patria soltanto nel 1989, quando ormai Chatwin "aveva già intrapreso un viaggio inevitabile, un lungo viaggio attraverso montagne e mari infiniti".
Il cileno si trovò così a viaggiare da solo, con lo spirito dell'inglese "nascosto fra le pagine della moleskine", il mitico taccuino che Chatwin gli aveva fatto conoscere e che gli aveva regalato proprio per poter catturare tutte le impressioni e sensazioni di quel viaggio. Un taccuino che non veniva più prodotto ma del quale Chatwin si era premurato di acquistare tutte le copie ancora disponibili presso l'unica cartoleria che le vendeva, a Parigi, in rue de l'Ancienne Comedie.

Patagonia Express” si apre dunque con l’incontro con Chatwin e si chiude con la visita ad un altro grande scrittore di Patagonia: “il gigante” Francisco Coloane.

"Una voce annuncia che salperemo tra pochi minuti, e questo può significare pochi minuti o poche ore. Si sa, le ore sono composte da minuti".

Il viaggio di Sepulveda parte dall’isola di Chiloè, che ancora Patagonia non è, ma da dove salpano diverse navi laggiù dirette. Durante la lunga navigazione tra i fiordi cileni, l’autore ci racconta, con la sua prosa scorrevole e rassicurante, storie locali bellissime, straordinariamente semplici nella loro semplice straordinarietà.

Dalle storie di gauchos che castrano agnelli con i denti, e che si dilettano in un “campionato di bugie”, a quella di un bambino che muore di tristezza.
Dal prof-coraggio che sfida il regime, alle avventure di Carlos l’aviatore.

Filo conduttore, la Patagonia: "una regione così vasta e colma di avventure che non può essere toccata dalla meschina frontiera che separa la vita dalla morte".
Come per la toccante storia dello scienziato con un passato nelle milizie alleate di Hitler, ambientata a Rio Mayo, un posto dove scendendo dal pullman si viene investiti dalla polvere e dal bombardamento sonoro degli altoparlanti posti agli angoli delle strade, antico retaggio della dittatura, che nessuno, a distanza di anni, ha osato rimuovere.

Patagonia, ma non solo. Alcuni racconti (“appunti” come li chiama l’autore) sono ambientati in Amazzonia o altre zone del Sudamerica. Il titolo tradotto in italiano (e in inglese) è in ciò un po’ fuorviante, riferendosi a un singolo episodio. Ma il poetico titolo originale era forse non così facilmente traducibile: “Al andar se hace el camino, se hace el camino al andar”.

Un libro che si innesta nel filone di diari di viaggio alla Chatwin e che con il capolavoro chatwiniano trova il naturale metro di paragone. Non solo per l’ambientazione, ma anche per la scelta di alcuni argomenti di cui l’inglese aveva abbondantemente trattato (Butch Cassidy e Sundance Kid, le rivolte del 1921…).
Eppure quello di Sepulveda, seppure a tratti possa apparire un doppione di “In Patagonia” (ed essendo in ciò svantaggiato dalla posteriorità), manifesta una propria naturale originalità.

Certo, “In Patagonia” è a suo modo pionieristico e in quanto tale unico.
Patagonia Express” è meno enciclopedico, più emotivo, ed in generale da l’impressione di essere più “patagonico”, forse più genuino.
Come Chatwin, più di Chatwin. Forse.

martedì 23 aprile 2013

LIBRI: SILVIA METZELTIN – POLVERE NELLE SCARPE

Titolo: Polvere nelle scarpe. Storie di Patagonia

Autore: Silvia Metzeltin

Editore: Corbaccio

Collana: Narratori Corbaccio

Prima edizione: 2002

Anno di Pubblicazione: 2002

Pagine: 153

Prezzo: euro 13,00

Una raccolta di racconti incentrata piú sulle persone della Patagonia che sui suoi luoghi, anche se le due cose vanno di pari passo: la Patagonia forgia i temperamenti umani come forse pochi altri posti di questo pianeta e dunque parlare delle persone che abitano queste terre vuol dire, in fondo, parlare di Patagonia.

Come scrive Mario Rigoni Stern nella prefazione al libro, "Forse (la Patagonia) é il luogo abitato più selvaggio della Terra. Più selvaggio, non più freddo, o più caldo, o desolato e difficile: primitivo forse, ma libero e spazioso, sicuro per chi sa adattarcisi e si accontenta della libertá".

Gli uomini e le donne che compaiono nei raccolti della Metzeltin, incontrati durante i suoi 22 viaggi in quelle terre desolate, sono persone sì libere, ma spesso fortemente malinconiche. Sono persone povere, che conducono vite a volte miserabili. Ma sono persone cariche di dignità, lontane dall'inquinamento sociale del mondo urbanizzato, cui alcuni sembrano ambire ma nemmeno così convintamente.
É difficile trovare un minimo comune denominatore tra i caratteri degli uomini e delle donne presentatici dall'autrice.
Eppure, sia che si parli di un peon, un lavoratore di campo, o di un ladro di cavalli si avverte sempre quello spirito.

Tra le storie più malinconicamente coinvolgenti, quelle del peon innamorato, che non si capacita di come la sua proposta di matrimonio possa venir rifiutata, e quella di Maria Luz Miranda e di come cambia la sua vita una volta affidatole, incautamente, a lei, donna di Patagonia, un carnet di assegni.
Ci sono storie drammatiche di figlie vendute fanciulle per pagare la riparazione di un tetto, o di uomini condannati a morire, per malattie terminali, ma che hanno ancora da insegnare a chi é più giovane.
Spesso i racconti hanno per protagonisti alpinisti o altre persone straniere che si rapportano con la gente del posto: del resto é solo con l'incontro tra due culture diverse che si riescono a cogliere i caratteri di ciò che é altro.

Un libro interessante, che forse sarebbe meglio leggere sul posto, per chi ha la possibilitá di andarci, così da potersi immedesimare appieno nello spirito di fondo e calare in una realtà sociale e umana che sembra lontana ma che in realtà è latente in ognuno di noi.

venerdì 19 aprile 2013

FILM: PICCOLE STORIE di CARLOS SORIN

Titolo: Piccole storie (Historias minimas)

Luogo e anno di produzione: Argentina 2002

Regia: Carlos Sorin

Sceneggiatura: Pablo Solarz

Fotografia: Hugo Colace

Colonna sonora: Nicolas Sorin

Cast: Javier Lombardo, Antonio Benedicti, Javiera Bravo

Durata: 92’

Lingua: disponibile in italiano

Sinossi: Patagonia argentina, provincia di Santa Cruz. Tre persone, tre diverse generazioni, in viaggio verso Puerto San Julian per tre differenti motivi. Il vecchio Don Justo per cercare il suo cane, che lo aveva abbandonato e che custodisce il suo segreto. Roberto, un rappresentante di commercio innamorato di una cliente vedova, per portare una torta di compleanno al figlio di lei. E infine Maria Flores, giovane madre di povera estrazione sociale, per partecipare a un gioco a premi in una trasmissione tv...

Terzo lungometraggio, in poco più di 15 anni, del “regista della Patagonia” Carlos Sorin, dopo “La Pelicula del Rey” e il meno riuscito “Fergus O’Connell – Dentista in Patagonia”.
Questo film delicatamente minimalista è un piccolo capolavoro di lentezza e quotidianità.
Le “piccole storie” sono in realtà storie di una drammatica eccezionalità per chi le vive. Quell’eccezionalità di chi conduce una vita modesta e si trova a dover fare i conti con l’imprevisto.

La Patagonia è terra di viaggi. Gli spazi da coprire sono enormi e il viaggio è necessità anche per chi in quelle terre ci abita tutto l’anno. Ma il viaggio è, per chiunque, scopo e pretesto, come ci insegna Chatwin, per la ricerca e la scoperta, non solo dell’altro e dell’altrove, ma soprattutto di se stessi.
Don Justo e Maria Flores trasmettono efficacemente il travaglio interiore legato alla scelta di partire. Le resistenze da superare per la naturale propensione alla stanzialità sono sempre enormi e legate ai motivi più disparati. Eppure alla fine l’impulso a partire si fa strada, superando gli ostacoli.

Sorin accompagna il viaggio con dialoghi apparentemente vaghi ma anche con i silenzi. A tratti ricorda il Bergman de Il posto delle fragole, con l’aplomb scandinavo sostituito dal lento fatalismo tipico dei caratteri temprati dai venti della Patagonia.

Il relativismo geografico negli occhi innocenti di Maria Flores: l’insignificante crocevia che è il paesino di Fitz Roy e l’altrettanto insignificante cittadina di Puerto San Julian sembrano due mondi diversi e lontani.
La quotidianità scossa dalla partecipazione alla trasmissione tv, con gli occhi della ragazza che scintillano di una gioia ineffabile.

Una regia dinamica, che privilegia i primi piani e il particolare, e regala a tratti qualche inquadratura memorabile.
Una splendida fotografia che esalta i paesaggi della Patagonia centrale, in quel tratto della Ruta 3 poco trafficato dai turisti e molto dai camionisti. Tra i film che ho visto ambientati in Patagonia questo è probabilmente quello più riuscito da un punto di vista paesaggistico.

Sorin si è servito di attori non professionisti, eccezion fatta per il personaggio di Roberto (che è infatti forse quello meno autentico). Il fatto che uno dei punti forti di questo film sia proprio l’interpretazione è un piccolo miracolo.
L’apatica espressività di Don Justo è eccezionale, e fatico ad immaginare una identica resa da parte del più consumato degli attori.
Quello sguardo carico di dignità ed esperienza non si può inventare dal nulla.
Solo la vita può forgiare due occhi come quelli di Don Justo.

venerdì 12 aprile 2013

FILM: PATAGONIA di MARC EVANS

Titolo: Patagonia

Luogo e anno di produzione: UK 2010

Regia: Marc Evans

Sceneggiatura: Laurence Coriat; Marc Evans

Fotografia: Robbie Ryan

Colonna sonora: Joseph LoDuca

Cast: Matthew Rhys, Marta Lubos, Nahuel Pérez Biscayart, Duffy

Durata: 119’

Lingua: gallese, inglese e spagnolo con sottotitoli in inglese

Sinossi: Due donne, un'anziana signora argentina e una giovane gallese, intraprendono due viaggi opposti: la prima vola dalla Patagonia al Galles, alla ricerca delle proprie origini; la seconda, viceversa, dal Galles alla Patagonia per seguire il compagno fotografo…

La storia dei gallesi che colonizzarono la valle del Chubut, nell’alta Patagonia argentina, é una storia di illusioni e delusioni, di tenacia, fede e perseveranza.

Questo commovente film gallese vi accenna appena con qualche cartello introduttivo, ma lo spirito che trasuda dai protagonisti é esattamente lo stesso di quei coraggiosi e incoscienti pionieri.

Viaggiare per scoprire sé stessi.

Viaggiare per riscoprire le proprie origini.

La giovane gallese che segue il suo compagno fotografo in Patagonia soffoca nel tradimento il dolore della scoperta della propria infertilitá, per poi rifugiarsi nella ricerca, fine a sè stessa, di una remota localitá andina.
L’anziana signora che abbandona la Patagonia per ritrovare la fattoria da cui partì sua madre, nel nord del Galles, é alla disperata ricerca di un’identitá perduta, imprigionata nello sguardo nostalgico di sua madre.

Passato, presente e futuro si incrociano continuamente nella grande metafora della Vita…

Un film interessante, che strizza l’occhio ai sognatori e ai cultori dell’on-the-road, con una azzeccata colonna sonora e qualche piccolo tocco stilistico che sfocia nello psichedelico, pur senza mai distrarre eccessivamente.
Il resto lo fanno i paesaggi incantevoli della Patagonia, che riempiono il cuore di una straripante, gioiosa solitudine.

giovedì 11 aprile 2013

LIBRI: JULIA SALTZMANN – LEGGENDE DELLA PATAGONIA

Titolo: Leggende della Patagonia e altri racconti tradizionali argentini

Autore: Julia Saltzmann

Editore: Mondadori

Collana: Oscar varia

Prima edizione: 1996

Anno di Pubblicazione: 2003

Pagine: 136

Prezzo: euro 7,40

La Saltzmann è un’esperta di folklore sudamericano e ha raccolto in questo volumetto una buona selezione di miti e leggende di due dei principali popoli indigeni della Patagonia, i Tehuelches (gli originari “Patagoni”) e i Mapuches.

Si passa dalle leggende escatologiche sulla creazione, a quelle sulla nascita di determinati luoghi e/o usanze (come quella del mate, la nota bevanda argentina che si consuma quasi come un rito), a quelle che spiegano la natura fisionomica di alcuni animali locali (la testa calva del condor piuttosto che l’esistenza di uccelli inadatti al volo).

Riguardando soltanto quei due popoli, la maggior parte delle leggende è ambientata nella regione di Neuquen, dunque nella zona più a nord della Patagonia. Il che purtroppo taglia fuori le più celebri zone del sud nonchè la Tierra del Fuego e le isole circostanti.

Sebbene quella della Saltzmann sia soltanto un’antologia di racconti presi qua e là, è comunque apprezzabile il lavoro di fondo di salvataggio di queste tradizioni orali, tramandate per secoli e che diversamente sarebbero destinate all’oblio, soprattutto in quei casi in cui le stesse riguardano popoli estinti o quasi (come per i Tehuelches, quanto meno con riferimento ai purosangue).

Un libro molto di nicchia, consigliabile soltanto agli appassionati di folklore e mitologia, oppure a chi volesse approfondire la cultura Mapuche o Tehuelche, o le leggende che ruotano attorno alla zona di Neuquen e del Parco Nahuel Huapi.