Autore: Antonio Pigafetta
Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform (Amazon.co.uk)
Prima edizione: 1524
Anno di Pubblicazione: 2012
Pagine: 130
Prezzo: euro 6,23
La prima circumnavigazione del globo, compiuta da una spedizione del Re di Spagna Carlo I, capitanata dal portoghese Ferdinando Magellano (e, dopo la sua morte, da Juan Sebastian Elcano) è una delle più grandi imprese della storia della navigazione, sebbene il prezzo pagato per portarla a termine sia stato assai oneroso: delle 5 navi salpate da Siviglia il 10 agosto 1519, solo 2 tornarono in Spagna, la Victoria, dopo oltre 3 anni, e la Trinidad, dopo circa 6 (quest’ultima peraltro senza compiere la circumnavigazione, avendo preferito, una volta giunti alle Molucche, ritornare in patria passando dal Pacifico anziché dall’Oceano Indiano); dei 234 uomini partiti, solo 36 sopravvissero all’estenuante viaggio.
Tra di essi vi era Antonio Pigafetta, nobile vicentino, Cavaliere di Rodi, che si trovava in Spagna nel 1519 quando seppe della spedizione di Magellano, sulla quale riuscì ad imbarcarsi grazie alla raccomandazione del nunzio pontificio che lo stesso Pigafetta accompagnava: “(…) deliberai, con bona grazia de la maestà cesarea e del prefato signor mio, far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e potessero partorirme qualche nome appresso la posterità”.
Studioso di matematica e astronomia, il vicentino entrò presto nelle grazie di Magellano, diventando suo attendente.
Durante la navigazione, Pigafetta tenne un dettagliato diario di viaggio, nel quale riportò minuziosamente “le grandi ed ammirabili cose che Dio me ha concesso di vedere e patire ne la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione”. Il resoconto del viaggio, redatto a partire da tale diario, venne pubblicato nel 1524 nella Repubblica di Venezia. In Spagna, infatti, nonostante il suo trionfale rientro assieme ad Elcano, il suo diario non aveva avuto fortuna e fu anzi occultato per nascondere i meriti che Magellano, un portoghese (!), aveva avuto in cotanta impresa, meriti ben evidenziati nel racconto del vicentino.
La spedizione era volta a cercare una via alternativa (e più breve) per giungere alle Molucche, arcipelago indonesiano ricchissimo di spezie, per evitare la circumnavigazione dell’Africa, le cui coste occidentali e meridionali erano controllate dai portoghesi.
Un proposito, quello concordato con Re Carlo I, che Magellano, almeno inizialmente, tenne per se: “non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa” (a maggior ragione considerando che “li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perchè, se non perchè era Portughese ed essi Spagnoli”).
Dopo una sosta di rifornimento alle Isole Canarie (già dominio spagnolo), le navi attraversarono l’atlantico (dove Magellano dovette fronteggiare il primo di una lunga serie di ammutinamenti), giungendo in Brasile (che Pigafetta chiama “terra del Verzin”).
Il resoconto alterna sicure esagerazioni (o, per lo meno, degli equivoci):
"Vidi molti pesci che volavano"
…a racconti riguardanti le novità del Nuovo Mondo che oggi, dopo 500 anni, ci fanno quanto meno sorridere:
"Queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi".
Dal Brasile le navi si spostarono nell’odierna Argentina. Già prima di partire, Magellano era convinto di trovare il passaggio verso il Pacifico in corrispondenza del Rio de la Plata (dove oggi si trova Buenos Aires), confortato in ciò da una mappa geografica dell’epoca. Ma dopo lunghe ricerche, il portoghese si convinse che così non era e continuò dunque la navigazione lungo la costa sudamericana, giungendo in Patagonia, dove, incontrando i primi rigori dell’inverno australe, decise di svernare in una baia che battezzò Puerto San Julian.
Lungo la costa sudamericana, l’equipaggio aveva incontrato varie specie di animali sconosciuti, tra cui quelli che Pigafetta chiama “occati” (i pinguini), i quali "non volano e vivono de pesce" e i “lupi marini” (leoni marini) i quali "non hanno gambe, se non piedi tacadi al corpo".
Ma incontrano anche diverse popolazioni autoctone, tra cui “uomini che se chiamano Canibali e mangiano la carne umana”.
In Patagonia trovarono invece una popolazione indigena di statura elevata, che in preda ad una romantica forzatura Pigafetta definisce “giganti” (“Li Giganti Patagoni”).
“Un dì a l'improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante…”
“Passati 15 giorni, vedessemo quattro de questi giganti”.
Le popolazioni patagoniche erano invero più alte della media (1,80 m contro la media degli europei dell’epoca che si aggirava attorno agli 1,50 m), ma di sicuro tutt’altro che giganti.
Probabilmente quando Pigafetta riferisce di aver incontrato un uomo “tanto grande che li davamo alla cintura” o esagerava (come quando sostiene che “Certamente questi giganti correno piú [dei] cavalli”) oppure si riferiva, seppure improbabilmente, a un indigeno di altezza notevolmente oltre la media.
L’equipaggio potrebbe esser stato tratto in inganno, prima di vederli effettivamente, dalle impronte che videro sulla terraferma, che risultavano in effetti enormi, in quanto gli indigeni calzavano degli ingombranti mocassini ottenuti con la pelle del guanaco (lama selvatico presente nella regione).
Da ciò deriva, con tutta probabilità (perché c’è almeno un’altra teoria, vedi cenni storici), lo stesso nome dei Patagoni (da pata-gones, piedi grandi in spagnolo) e di conseguenza della loro terra, la Patagonia.
“Il capitano generale nominò questi popoli Patagoni”.
Magellano decise di catturare due di questi indigeni usando l’astuzia (visto che con la forza sarebbe stato assai arduo): sommerse le loro mani di doni di ogni genere e a quel punto fece bloccare i loro piedi con delle catene.
Trascorso l’inverno a Puerto San Julian, la flotta (che intanto aveva perso una nave in un naufragio) ripartì verso sud per cercare l’agognato sbocco sul Pacifico. Il 21 ottobre 1520 giunsero ad un promontorio che battezzarono “Capo delle undicimila vergini” (oggi solamente “Cabo Virgenes”) in quanto in quel giorno si festeggiava la ricorrenza di Sant'Orsola e delle undicimila vergini.
A Cabo Virgenes furono mandate due navi in avanscoperta, le quali tornarono dopo alcuni giorni con la gioiosa notizia: avevano trovato la via verso il Pacifico in quello che sarebbe diventato lo “Stretto di Magellano”.
Ecco il resoconto della storica scoperta:
“Andando a 52 gradi al medesimo polo, trovassemo nel giorno delle Undecimila vergine uno stretto, el capo del quale chiamammo Capo de le undece mila Vergine, per grandissimo miracolo. Questo stretto è longo cento e dieci leghe, che sono 440 miglia, e largo più o manco de mezza lega, che va a riferire in un altro mare, chiamato mar Pacifico, circondato da montagne altissime caricate de neve. Non [g]li potevamo trovar fondo se non con lo proise in terra in 25 e 30 brazza. E se non era el capitano generale non trovavamo questo stretto, perchè tutti pensavamo e dicevamo come era serrato tutto intorno: ma il capitano generale, che sapeva de dover fare la sua navigazione per uno stretto molto ascoso, come vide ne la tesoreria del re di Portugal in una carta fatta per quello eccellentissimo uomo Martin di Boemia, mandò due navi, Santo Antonio e la Concezione, che così le chiamavano, a vedere che era nel capo della baia.
Noi, con le altre due nave, la capitania, [che] se chiamava Trinidade, l'altra la Victoria, stessemo ad aspettarle dentro ne la baia. La notte ne sopravvenne una grande fortuna, che durò fino a l'altro mezzogiorno, per il che ne fu forza levare l'ancore e lasciare andare de qua e de là per la baia. A le altre due navi li era traversia e non potevano cavalcare uno capo, che faceva la baia quasi in fine, per venire a noi, sì che le era forza a dare in secco. Pur accostandose al fine de la baia, pensando de essere persi, vitteno una bocca piccola, che non pareva bocca, ma uno cantone, e come abbandonati se cacciarono dentro, sì che per forza discoperseno el stretto; e vedendo che non era cantone, ma uno stretto de terra, andarono piú innanzi e trovarono una baia. Poi, andando più oltra, trovarono uno altro stretto e un'altra baia più grande che le due prime. Molto allegri, subito voltorno indietro per dirlo al capitano generale.
Noi pensavamo fossero perse, prima per la fortuna grande, l'altra perchè erano passati dui giorni e non apparevano, e anco per certi fumi che facevano dui de li sui mandati in terra per avvisarne. E così stando sospesi, vedemmo venire [le] due navi con le vele piene e con le bandiere spiegate verso di noi. Essendo così vicine, subito scaricarono molte bombarde e gridi; poi tutti insieme, rengraziando Iddio e la Vergine Maria, andassemo a cercare più innanzi”.
Le navi giunsero al Pacifico in corrispondenza di quello che non poteva chiamarsi altrimenti che “Cabo Deseado”.
Dopo l’ennesimo ammutinamento, una nave fece dietrofront, come peraltro era stato proposto, per chi avesse così voluto, da Magellano ai comandanti.
Le tre navi rimaste navigarono nel Pacifico per oltre tre mesi. La traversata fu particolarmente gravosa, anche perché, secondo le ipotesi di Magellano, avrebbe dovuto durare solo un mese: malattie e carenza di cibo decimarono l’equipaggio, che visse in condizioni disperate, prima di raggiungere le Isole Marianne. Qui gli europei si dovettero confrontare con l’odiosa attitudine al furto degli indigeni, che portò ad alcuni scontri.
Le navi ripartirono e giunsero nelle Filippine, dove si fermarono per diversi mesi e dove tentarono un’opera di conversione dei sovrani locali, con alterne fortune. Quando uno dei Re decise di sottomersi alla corona spagnola scoppiò una rivolta nell’isola di Mactan, per sedare la quale Magellano decise di usare la forza. Nei violenti scontri che ne seguirono l’ammiraglio perse la vita. Era il 27 aprile dell’anno 1521.
I sopravvissuti fuggirono nel Borneo, rimanendo oltre un mese a Brunei, per poi giungere infine, con due navi e con un equipaggio decimato, alle agognate Molucche. Come detto, le due navi si separarono scegliendo due strade diverse per il ritorno alla madrepatria.
Pigafetta rimase nella nave che portò a compimento la circumnavigazione del globo, attestata da una curiosa scoperta: avendo superato la linea del cambio di data, non appena si trovarono a confrontarsi su che giorno fosse, i reduci scoprirono che la loro data (di cui erano assolutamente certi) era di un giorno anteriore.
“Commettessimo a li nostri del battello, quando andarono in terra, [che] domandassero che giorno era: me dissero come era a li Portoghesi giove. Se meravigliassemo molto perchè era mercore a noi; e non sapevamo come avessimo errato: per ogni giorno, io, per essere stato sempre sano, aveva scritto senza nissuna intermissione. Ma, come dappoi ne fu detto, non era errore; ma il viaggio fatto sempre per occidente e ritornato a lo stesso luogo, come fa il sole, aveva portato quel vantaggio de ore ventiquattro, come chiaro se vede”.
La “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” è configurata come un lungo resoconto indirizzato “a l'illustrissimo ed eccellentissimo signor Filippo de Villers Lisleadam, inclito Gran Maistro di Rodi”. Un resoconto strutturato come un reportage socio-geografico, come peraltro ben si evince dal titolo originale “Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti”.
Un documento di un’importanza enorme nella storia delle scoperte e della navigazione, sebbene di certo non brilli per meriti prettamente letterari: lo stile è infatti molto didascalico e poco scorrevole. È inoltre molto ripetitivo, soprattutto nelle descrizioni dei vari popoli indigeni, per i quali l’autore usa spesso i medesimi termini, generando alla lunga una sorta di cantilena (“Questi populi vanno nudi come li altri”; “Vanno nudi come li altri”; “Questi popoli de Pulaoan vanno nudi come li altri”…).
Vengono descritti molti usi locali, a volte curiosi, altre raccapriccianti, come quello che impone alle donne di Giava di bruciarsi vive alla morte del marito:
“quando uno uomo de li principali de Giava Maggiore muore, se brucia lo suo corpo: la sua moglie più principale adornasi con ghirlande de fiori e fassi portare da tre o quattro uomini sovra uno scanno per tutta questa villa, e ridendo e confortando li suoi parenti, che piangono, dice: non piangete, perciò [che] me ne vado questa sera a cenare col mio marito e dormire seco in questa notte. Poi è portata al fuoco, dove se brucia lo suo marito, e lei voltandosi contro li suoi parenti e confortandoli una altra fiata, se getta nel fuoco, ove brusa lo suo marito. E se questo non facesse, non saria tenuta donna da bene, nè vera moglie del marito morto”.
Non mancano i racconti “piccanti” delle abitudini sessuali degli indigeni, alcune per il vero parecchio bizzarre e singolari.
Il documento è sicuramente interessante, anche se a volte un po’ faticoso da seguire (e in ciò l’italiano vetusto, del ‘500, di Pigafetta non aiuta per niente).
Forse sarebbe meglio affrontarlo con una base alle spalle, ossia dopo aver letto, da altre fonti meno difficili da comprendere, i rudimenti del viaggio di Magellano, così da agevolare poi la comprensione del testo e goderselo appieno.
2 commenti:
Grazie, mi è stato utilissimo!
Prego
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