martedì 28 maggio 2013

LIBRI: FRANCISCO COLOANE – TERRA DEL FUOCO

Titolo: Terra del Fuoco

Autore: Francisco Coloane

Editore: TEA

Collana: Teadue

Prima edizione: 1956

Anno di Pubblicazione: 2003

Pagine: 176

Prezzo: euro 9,00
 
C’è un uomo grande e amabile, laggiù, nelle terre alla fine del mondo”.
Quell’uomo è Francisco Coloane, secondo la devota presentazione che di lui fa il connazionale e collega Luis Sepulveda, nella sua sentita prefazione. Sepulveda aveva incontrato più volte questo “adolescente dalla barba bianca”, una delle quali è descritta in Patagonia Express (per cui vedi qui). Coloane ha ispirato una moltitudine di scrittori sudamericani e non solo (tra cui Chatwin), e viene giustamente accostato a grandi scrittori di narrativa e di avventura quali Jack London, Joseph Conrad o Herman Melville.
Per Sepulveda, Coloane rappresenta “Lo scrittore che più di ogni altro è riuscito a spalancare le porte su un mondo sconosciuto”, la Patagonia e la Terra del Fuoco, due lande dove regna incontrastata la natura, che l’uomo può limitarsi ad osservare e, come nel caso di Coloane, descrivere.
Ma Patagonia e Terra del Fuoco non sono solo due mondi geografici. Sono due territori che temprano l’uomo a loro immagine e somiglianza. E anche tali uomini sono meritevoli di essere descritti e raccontati:
Nei miei racconti e nei miei romanzi, ho voluto esprimere l’anima dell’uomo cileno, soprattutto quello di Chiloé o della regione magellanea, confinato tra i mari, i golfi, le cordigliere frastagliate e i ghiacciai millenari del Sud, circondato dall’oceano più burrascoso del pianeta. In questo scenario grandioso vive un uomo debole quanto una brezza, e nello stesso tempo forte come il vento dell’Est”.
Francisco Coloane nacque nell’isola di Chiloè, che della Patagonia non fa parte (per alcuni cenni geografici vedi qui), ma che con essa condivide molte caratteristiche, non solo geografiche. Nella sua giovinezza viaggiò a lungo, imbarcato come marinaio, in giro per le estancias come peon.
Viaggiò per necessità e non per diletto, ma questo suo continuo viaggiare contribuì alla sua formazione e a farlo innamorare di quelle splendide terre.
Le terre patagoniche e fuegine sono il filo conduttore dei racconti che compongono questa raccolta.
Il titolo “Terra del Fuoco” riprende quello di uno di questi racconti, il primo, in cui Coloane narra le vicende di solitari cercatori d'oro, i cui rapporti sono segnati dalla diffidenza. Quella dei cercatori d’oro in Terra del Fuoco è una pagina di storia che inizia nel tardo Ottocento e prosegue nel primo Novecento. Una caccia all’oro simile a quella del far-west americano, ma non altrettanto fortunata: pochi si sono arricchiti con tale attività e molti sono quelli rimasti delusi, inseguendo miraggi. Circostanze che hanno portato alla coltivazione di rapporti umani segnati dal sospetto.
Lo scrittore cileno rende magnificamente le emozioni dei suoi personaggi in un contesto in cui fortemente protagonista è il territorio.
Ma i racconti non sono ambientati solo nella celebre isola a sud dello Stretto di Magellano. Molti di essi si collocano in altre regioni della Patagonia, come quello che narra di un’esperienza mistica nella Cueva del Milodon, celebrata da Chatwin in In Patagonia (per cui vedi qui). Una grotta “coperta di stalattiti, come se l’intera caverna lacrimasse in un perpetuo e notturno pianto millenario”.
C’è spazio anche per toccanti storie di eroismo, all’epoca delle rivolte sociali dopo la Grande Guerra, in “Come morì il chiloese Otey”.
Non sono solo i cercatori d’oro quelli che si tradiscono per soldi, ma anche semplici marinai, la cui routinaria realtà Coloane conosce bene per averla vissuta per lungo tempo nella sua adolescenza, e che, anche grazie a tale esperienza, espone in modo impeccabile.
Da Puerto Montt a Puerto Eden: una rotta leggendaria tra i fiordi cileni, verso un posto dimenticato da Dio. Protagonista stavolta un innocente agnellino, guardato inizialmente con occhi famelici dai marinai per poi divenire mascotte della nave.
Gli uomini descritti da Coloane, gli uomini della Patagonia, sono pregni di dignità. I loro valori sono totalmente capovolti rispetto agli uomini di città:
Che me ne faccio dei soldi su quest’isola? Non posso certo mangiarmeli; una pecora, invece, può sfamare tutta la mia famiglia, in caso di necessità”.
Uomini segnati dal territorio e che spesso si rifugiano nel mutismo per fuggire mentalmente da una realtà troppo difficile. Come nel racconto ambientato nell’isola di Navarino, a sud di Ushuaia, l’ultimo lembo di terra abitata prima dell’Antartide, che ha come protagonista un “uomo indecifrabile, immerso nel suo silenzio come un iceberg che mostrava solo la settima parte delle sue dimensioni reali, rugoso e pietrificato come la natura che lo circondava”. Una similitudine splendida, quella dell’uomo-iceberg, con cui Coloane ci ricorda ancora una volta come la natura forgia lo spirito dell’uomo fino a farlo diventare parte di sé.
Una raccolta di racconti di singolare bellezza e l’ultimo di essi, quello sul costruttore del faro, né è un esempio formidabile.
Racconti da gustare in silenzio, con grande concentrazione, per immedesimarsi appieno.
Quelli di Coloane sono racconti che si immergono a fondo nella psiche di uomini temprati dal vento e dall’isolamento di quei posti solitariamente meravigliosi.

martedì 21 maggio 2013

LIBRI: BRUCE CHATWIN – IN PATAGONIA

Titolo: In Patagonia

Autore: Bruce Chatwin

Editore: Adelphi

Collana: Gli Adelphi

Prima edizione: 1977

Anno di Pubblicazione: 2006

Pagine: 265

Prezzo: euro 8,50

La Patagonia!.. è un'amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un'ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più”.

Leggere un grande libro, per quanto mitico possa essere e per quanto se ne possa aver sentito parlare, non può non riservare grandi sorprese.

In Patagonia” non sarà forse “il libro simbolo di tutti i viaggi”, come afferma l’editore nella quarta di copertina calcando un po’ troppo l’entusiasmo. È però sicuramente l’archetipo del diario di viaggio contemporaneo, ma anche molto di più.

Per Chatwin il viaggio è un pretesto per raccontare storie e per indagare su un passato misterioso. Questa è la sorpresa più grande che si ha leggendo “In Patagonia”.

Il Chatwin bambino sognava la Patagonia da dove proveniva quel frammento di pelle di “brontosauro”, che in realtà era il milodonte cileno:
Alla morte della nonna finì buttato via, e io giurai che un giorno sarei andato a cercarne un altro per rimpiazzarlo”.

Il Chatwin adolescente, in tempo di guerra fredda, sognava la Patagonia come posto sicuro, come rifugio per sottrarsi all'autodistruzione umana:
Nessuno vorrebbe lasciar cadere una bomba atomica sulla Patagonia”.

Il Chatwin adulto concretizza la Patagonia come viaggio per ricercare i propri legami con il passato… e cercare se stesso:
Il mio Dio è il Dio dei viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio”.

Meno on the road di quanto si possa pensare, il romanzo di Chatwin acquista spesso la veste di un saggio con caratteri storico-enciclopedici. Un grande lavoro di ricerca e di consultazione di fonti è alla base di lunghe digressioni sull’origine del nome “Patagonia”, piuttosto che sul ritrovamento dei resti del milodonte nel fiordo di Ultima speranza.

Chatwin aveva da tempo in progetto di scrivere un trattato sul nomadismo, che analizzasse la pulsione umana verso gli spazi aperti e il movimento, l’avversione per la stanzialità. Un’opera mai realizzata, sebbene l’ideale di fondo che lo muoveva si possa riscontrare in molti suoi scritti, alcuni dei quali racconti postumi nel saggio “Anatomia dell’irrequietezza”.

Il tema del viaggio è quasi un contorno di un generale spirito asetticamente psicologico che permea ogni frase, ogni avventura narrata.

Tra le vicende riportate da Chatwin, quelle del Re di Araucania e Patagonia, la fuga di Butch Cassidy e Sundance Kid, le rivolte sociali del ‘900. Ma anche tante storie di gente del posto, che ci restituiscono la sensazione della Patagonia quale lontano, malinconico e multietnico micromondo.
E poi, ovviamente, Chatwin ci racconta la storia di Charley Milward, il parente avventuriero che aveva mandato alla nonna quel frammento di pelle “spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci”, che tanto aveva solleticato la sua immaginazione da bambino.

Il viaggio nella sua dimensione umana: storie locali più che mera descrizione di luoghi. Eppure il luogo (o il non luogo) è protagonista assoluto in quanto catalizzatore, ispiratore di tutte quelle esperienze e sensazioni.

Mentre l'autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca che il vento sollevava dalle saline e, all'orizzonte, la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori”.

Vento implacabile, che ti porta via. A volte senti un camion, sei sicuro che sia un camion, ma è solo il vento”.

Chatwin ispira un'idea diversa, molto concreta, di viaggio: quella di avere uno scopo, per quanto effimero e futile (ritrovare il frammento di pelle di milodonte). Uno scopo che è forse in realtà soltanto un pretesto. Ma di pretesti, del resto, ci nutriamo ogni giorno.

Lo stile di Chatwin è asciutto, asettico, con una particolarità importante: la capacità di narrare restando sostanzialmente al di fuori, evitando i personalismi. Qualcosa di sicuramente atipico per un diario di viaggio.

Un libro che cattura, senza che si possa dire bene per cosa, e forse questa è una delle sue forze.

In Patagonia ha un fascino magnetico.

giovedì 9 maggio 2013

LIBRI: ANTONIO PIGAFETTA – RELAZIONE DEL PRIMO VIAGGIO INTORNO AL MONDO

Titolo: Relazione del primo viaggio intorno al Mondo (Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti descritti da Antonio Pigafetta, vicentino, cavaliere di Rodi)

Autore: Antonio Pigafetta

Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform (Amazon.co.uk)

Prima edizione: 1524

Anno di Pubblicazione: 2012

Pagine: 130

Prezzo: euro 6,23

La prima circumnavigazione del globo, compiuta da una spedizione del Re di Spagna Carlo I, capitanata dal portoghese Ferdinando Magellano (e, dopo la sua morte, da Juan Sebastian Elcano) è una delle più grandi imprese della storia della navigazione, sebbene il prezzo pagato per portarla a termine sia stato assai oneroso: delle 5 navi salpate da Siviglia il 10 agosto 1519, solo 2 tornarono in Spagna, la Victoria, dopo oltre 3 anni, e la Trinidad, dopo circa 6 (quest’ultima peraltro senza compiere la circumnavigazione, avendo preferito, una volta giunti alle Molucche, ritornare in patria passando dal Pacifico anziché dall’Oceano Indiano); dei 234 uomini partiti, solo 36 sopravvissero all’estenuante viaggio.
Tra di essi vi era Antonio Pigafetta, nobile vicentino, Cavaliere di Rodi, che si trovava in Spagna nel 1519 quando seppe della spedizione di Magellano, sulla quale riuscì ad imbarcarsi grazie alla raccomandazione del nunzio pontificio che lo stesso Pigafetta accompagnava: “(…) deliberai, con bona grazia de la maestà cesarea e del prefato signor mio, far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e potessero partorirme qualche nome appresso la posterità”.
Studioso di matematica e astronomia, il vicentino entrò presto nelle grazie di Magellano, diventando suo attendente.
Durante la navigazione, Pigafetta tenne un dettagliato diario di viaggio, nel quale riportò minuziosamente “le grandi ed ammirabili cose che Dio me ha concesso di vedere e patire ne la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione”. Il resoconto del viaggio, redatto a partire da tale diario, venne pubblicato nel 1524 nella Repubblica di Venezia. In Spagna, infatti, nonostante il suo trionfale rientro assieme ad Elcano, il suo diario non aveva avuto fortuna e fu anzi occultato per nascondere i meriti che Magellano, un portoghese (!), aveva avuto in cotanta impresa, meriti ben evidenziati nel racconto del vicentino.
La spedizione era volta a cercare una via alternativa (e più breve) per giungere alle Molucche, arcipelago indonesiano ricchissimo di spezie, per evitare la circumnavigazione dell’Africa, le cui coste occidentali e meridionali erano controllate dai portoghesi.
Un proposito, quello concordato con Re Carlo I, che Magellano, almeno inizialmente, tenne per se: “non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa” (a maggior ragione considerando che “li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perchè, se non perchè era Portughese ed essi Spagnoli”).
Dopo una sosta di rifornimento alle Isole Canarie (già dominio spagnolo), le navi attraversarono l’atlantico (dove Magellano dovette fronteggiare il primo di una lunga serie di ammutinamenti), giungendo in Brasile (che Pigafetta chiama “terra del Verzin”).
Il resoconto alterna sicure esagerazioni (o, per lo meno, degli equivoci):
"Vidi molti pesci che volavano"
…a racconti riguardanti le novità del Nuovo Mondo che oggi, dopo 500 anni, ci fanno quanto meno sorridere:
"Queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi".
Dal Brasile le navi si spostarono nell’odierna Argentina. Già prima di partire, Magellano era convinto di trovare il passaggio verso il Pacifico in corrispondenza del Rio de la Plata (dove oggi si trova Buenos Aires), confortato in ciò da una mappa geografica dell’epoca. Ma dopo lunghe ricerche, il portoghese si convinse che così non era e continuò dunque la navigazione lungo la costa sudamericana, giungendo in Patagonia, dove, incontrando i primi rigori dell’inverno australe, decise di svernare in una baia che battezzò Puerto San Julian.
Lungo la costa sudamericana, l’equipaggio aveva incontrato varie specie di animali sconosciuti, tra cui quelli che Pigafetta chiama “occati” (i pinguini), i quali "non volano e vivono de pesce" e i “lupi marini” (leoni marini) i quali "non hanno gambe, se non piedi tacadi al corpo".
Ma incontrano anche diverse popolazioni autoctone, tra cui “uomini che se chiamano Canibali e mangiano la carne umana”.
In Patagonia trovarono invece una popolazione indigena di statura elevata, che in preda ad una romantica forzatura Pigafetta definisce “giganti” (“Li Giganti Patagoni”).
Un dì a l'improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante…
Passati 15 giorni, vedessemo quattro de questi giganti”.
Le popolazioni patagoniche erano invero più alte della media (1,80 m contro la media degli europei dell’epoca che si aggirava attorno agli 1,50 m), ma di sicuro tutt’altro che giganti.
Probabilmente quando Pigafetta riferisce di aver incontrato un uomo “tanto grande che li davamo alla cintura” o esagerava (come quando sostiene che “Certamente questi giganti correno piú [dei] cavalli”) oppure si riferiva, seppure improbabilmente, a un indigeno di altezza notevolmente oltre la media.
L’equipaggio potrebbe esser stato tratto in inganno, prima di vederli effettivamente, dalle impronte che videro sulla terraferma, che risultavano in effetti enormi, in quanto gli indigeni calzavano degli ingombranti mocassini ottenuti con la pelle del guanaco (lama selvatico presente nella regione).
Da ciò deriva, con tutta probabilità (perché c’è almeno un’altra teoria, vedi cenni storici), lo stesso nome dei Patagoni (da pata-gones, piedi grandi in spagnolo) e di conseguenza della loro terra, la Patagonia.
Il capitano generale nominò questi popoli Patagoni”.
Magellano decise di catturare due di questi indigeni usando l’astuzia (visto che con la forza sarebbe stato assai arduo): sommerse le loro mani di doni di ogni genere e a quel punto fece bloccare i loro piedi con delle catene.
Trascorso l’inverno a Puerto San Julian, la flotta (che intanto aveva perso una nave in un naufragio) ripartì verso sud per cercare l’agognato sbocco sul Pacifico. Il 21 ottobre 1520 giunsero ad un promontorio che battezzarono “Capo delle undicimila vergini” (oggi solamente “Cabo Virgenes”) in quanto in quel giorno si festeggiava la ricorrenza di Sant'Orsola e delle undicimila vergini.
A Cabo Virgenes furono mandate due navi in avanscoperta, le quali tornarono dopo alcuni giorni con la gioiosa notizia: avevano trovato la via verso il Pacifico in quello che sarebbe diventato lo “Stretto di Magellano”.
Ecco il resoconto della storica scoperta:
Andando a 52 gradi al medesimo polo, trovassemo nel giorno delle Undecimila vergine uno stretto, el capo del quale chiamammo Capo de le undece mila Vergine, per grandissimo miracolo. Questo stretto è longo cento e dieci leghe, che sono 440 miglia, e largo più o manco de mezza lega, che va a riferire in un altro mare, chiamato mar Pacifico, circondato da montagne altissime caricate de neve. Non [g]li potevamo trovar fondo se non con lo proise in terra in 25 e 30 brazza. E se non era el capitano generale non trovavamo questo stretto, perchè tutti pensavamo e dicevamo come era serrato tutto intorno: ma il capitano generale, che sapeva de dover fare la sua navigazione per uno stretto molto ascoso, come vide ne la tesoreria del re di Portugal in una carta fatta per quello eccellentissimo uomo Martin di Boemia, mandò due navi, Santo Antonio e la Concezione, che così le chiamavano, a vedere che era nel capo della baia.
Noi, con le altre due nave, la capitania, [che] se chiamava Trinidade, l'altra la Victoria, stessemo ad aspettarle dentro ne la baia. La notte ne sopravvenne una grande fortuna, che durò fino a l'altro mezzogiorno, per il che ne fu forza levare l'ancore e lasciare andare de qua e de là per la baia. A le altre due navi li era traversia e non potevano cavalcare uno capo, che faceva la baia quasi in fine, per venire a noi, sì che le era forza a dare in secco. Pur accostandose al fine de la baia, pensando de essere persi, vitteno una bocca piccola, che non pareva bocca, ma uno cantone, e come abbandonati se cacciarono dentro, sì che per forza discoperseno el stretto; e vedendo che non era cantone, ma uno stretto de terra, andarono piú innanzi e trovarono una baia. Poi, andando più oltra, trovarono uno altro stretto e un'altra baia più grande che le due prime. Molto allegri, subito voltorno indietro per dirlo al capitano generale.
Noi pensavamo fossero perse, prima per la fortuna grande, l'altra perchè erano passati dui giorni e non apparevano, e anco per certi fumi che facevano dui de li sui mandati in terra per avvisarne. E così stando sospesi, vedemmo venire [le] due navi con le vele piene e con le bandiere spiegate verso di noi. Essendo così vicine, subito scaricarono molte bombarde e gridi; poi tutti insieme, rengraziando Iddio e la Vergine Maria, andassemo a cercare più innanzi”.
Le navi giunsero al Pacifico in corrispondenza di quello che non poteva chiamarsi altrimenti che “Cabo Deseado”.
Dopo l’ennesimo ammutinamento, una nave fece dietrofront, come peraltro era stato proposto, per chi avesse così voluto, da Magellano ai comandanti.
Le tre navi rimaste navigarono nel Pacifico per oltre tre mesi. La traversata fu particolarmente gravosa, anche perché, secondo le ipotesi di Magellano, avrebbe dovuto durare solo un mese: malattie e carenza di cibo decimarono l’equipaggio, che visse in condizioni disperate, prima di raggiungere le Isole Marianne. Qui gli europei si dovettero confrontare con l’odiosa attitudine al furto degli indigeni, che portò ad alcuni scontri.
Le navi ripartirono e giunsero nelle Filippine, dove si fermarono per diversi mesi e dove tentarono un’opera di conversione dei sovrani locali, con alterne fortune. Quando uno dei Re decise di sottomersi alla corona spagnola scoppiò una rivolta nell’isola di Mactan, per sedare la quale Magellano decise di usare la forza. Nei violenti scontri che ne seguirono l’ammiraglio perse la vita. Era il 27 aprile dell’anno 1521.
I sopravvissuti fuggirono nel Borneo, rimanendo oltre un mese a Brunei, per poi giungere infine, con due navi e con un equipaggio decimato, alle agognate Molucche. Come detto, le due navi si separarono scegliendo due strade diverse per il ritorno alla madrepatria.
Pigafetta rimase nella nave che portò a compimento la circumnavigazione del globo, attestata da una curiosa scoperta: avendo superato la linea del cambio di data, non appena si trovarono a confrontarsi su che giorno fosse, i reduci scoprirono che la loro data (di cui erano assolutamente certi) era di un giorno anteriore.
Commettessimo a li nostri del battello, quando andarono in terra, [che] domandassero che giorno era: me dissero come era a li Portoghesi giove. Se meravigliassemo molto perchè era mercore a noi; e non sapevamo come avessimo errato: per ogni giorno, io, per essere stato sempre sano, aveva scritto senza nissuna intermissione. Ma, come dappoi ne fu detto, non era errore; ma il viaggio fatto sempre per occidente e ritornato a lo stesso luogo, come fa il sole, aveva portato quel vantaggio de ore ventiquattro, come chiaro se vede”.

La “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” è configurata come un lungo resoconto indirizzato “a l'illustrissimo ed eccellentissimo signor Filippo de Villers Lisleadam, inclito Gran Maistro di Rodi”. Un resoconto strutturato come un reportage socio-geografico, come peraltro ben si evince dal titolo originale “Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti”.
Un documento di un’importanza enorme nella storia delle scoperte e della navigazione, sebbene di certo non brilli per meriti prettamente letterari: lo stile è infatti molto didascalico e poco scorrevole. È inoltre molto ripetitivo, soprattutto nelle descrizioni dei vari popoli indigeni, per i quali l’autore usa spesso i medesimi termini, generando alla lunga una sorta di cantilena (“Questi populi vanno nudi come li altri”; “Vanno nudi come li altri”; “Questi popoli de Pulaoan vanno nudi come li altri”…).
Vengono descritti molti usi locali, a volte curiosi, altre raccapriccianti, come quello che impone alle donne di Giava di bruciarsi vive alla morte del marito:
quando uno uomo de li principali de Giava Maggiore muore, se brucia lo suo corpo: la sua moglie più principale adornasi con ghirlande de fiori e fassi portare da tre o quattro uomini sovra uno scanno per tutta questa villa, e ridendo e confortando li suoi parenti, che piangono, dice: non piangete, perciò [che] me ne vado questa sera a cenare col mio marito e dormire seco in questa notte. Poi è portata al fuoco, dove se brucia lo suo marito, e lei voltandosi contro li suoi parenti e confortandoli una altra fiata, se getta nel fuoco, ove brusa lo suo marito. E se questo non facesse, non saria tenuta donna da bene, nè vera moglie del marito morto”.
Non mancano i racconti “piccanti” delle abitudini sessuali degli indigeni, alcune per il vero parecchio bizzarre e singolari.
Il documento è sicuramente interessante, anche se a volte un po’ faticoso da seguire (e in ciò l’italiano vetusto, del ‘500, di Pigafetta non aiuta per niente).
Forse sarebbe meglio affrontarlo con una base alle spalle, ossia dopo aver letto, da altre fonti meno difficili da comprendere, i rudimenti del viaggio di Magellano, così da agevolare poi la comprensione del testo e goderselo appieno.

venerdì 3 maggio 2013

LIBRI: LUIS SEPULVEDA – PATAGONIA EXPRESS

Titolo: Patagonia Express

Autore: Luis Sepulveda

Editore: Guanda

Collana: Le Fenici tascabili

Prima edizione: 1995

Anno di Pubblicazione: 1999

Pagine: 128

Prezzo: euro 7,50

"Il sole tramonta a ovest, si inabissa nel Pacifico, e i suoi ultimi riflessi proiettano sulla candida pampa l'ombra del Patagonia Express che si allontana in senso contrario, verso l'Atlantico, là dove iniziano i giorni".

Il Patagonia Express (da non confondere con l'Old Patagonian Express, il Viejo Expreso Patagonico di Esquel, noto anche come "la Trochita" e reso noto dall’omonimo romanzo di Paul Theroux) è il treno più australe del mondo. Viaggia dalla città mineraria di Rio Turbio, sul confine andino con il Cile, a Rio Gallegos, sull'Atlantico.

Quella sul Patagonia Express è una delle tappe del lungo viaggio che Sepulveda intraprende nel sud America. Un viaggio progettato in un caffè di Barcellona con Bruce Chatwin, quando quest'ultimo era già diventato celebre per il suo diario del viaggio compiuto "In Patagonia".

- Quando partiamo, cileno?
- Non appena me lo permettono, inglese!

Sepulveda, esiliato dal Cile a seguito del colpo di Stato di Pinochet, ottenne il permesso per ritornare in patria soltanto nel 1989, quando ormai Chatwin "aveva già intrapreso un viaggio inevitabile, un lungo viaggio attraverso montagne e mari infiniti".
Il cileno si trovò così a viaggiare da solo, con lo spirito dell'inglese "nascosto fra le pagine della moleskine", il mitico taccuino che Chatwin gli aveva fatto conoscere e che gli aveva regalato proprio per poter catturare tutte le impressioni e sensazioni di quel viaggio. Un taccuino che non veniva più prodotto ma del quale Chatwin si era premurato di acquistare tutte le copie ancora disponibili presso l'unica cartoleria che le vendeva, a Parigi, in rue de l'Ancienne Comedie.

Patagonia Express” si apre dunque con l’incontro con Chatwin e si chiude con la visita ad un altro grande scrittore di Patagonia: “il gigante” Francisco Coloane.

"Una voce annuncia che salperemo tra pochi minuti, e questo può significare pochi minuti o poche ore. Si sa, le ore sono composte da minuti".

Il viaggio di Sepulveda parte dall’isola di Chiloè, che ancora Patagonia non è, ma da dove salpano diverse navi laggiù dirette. Durante la lunga navigazione tra i fiordi cileni, l’autore ci racconta, con la sua prosa scorrevole e rassicurante, storie locali bellissime, straordinariamente semplici nella loro semplice straordinarietà.

Dalle storie di gauchos che castrano agnelli con i denti, e che si dilettano in un “campionato di bugie”, a quella di un bambino che muore di tristezza.
Dal prof-coraggio che sfida il regime, alle avventure di Carlos l’aviatore.

Filo conduttore, la Patagonia: "una regione così vasta e colma di avventure che non può essere toccata dalla meschina frontiera che separa la vita dalla morte".
Come per la toccante storia dello scienziato con un passato nelle milizie alleate di Hitler, ambientata a Rio Mayo, un posto dove scendendo dal pullman si viene investiti dalla polvere e dal bombardamento sonoro degli altoparlanti posti agli angoli delle strade, antico retaggio della dittatura, che nessuno, a distanza di anni, ha osato rimuovere.

Patagonia, ma non solo. Alcuni racconti (“appunti” come li chiama l’autore) sono ambientati in Amazzonia o altre zone del Sudamerica. Il titolo tradotto in italiano (e in inglese) è in ciò un po’ fuorviante, riferendosi a un singolo episodio. Ma il poetico titolo originale era forse non così facilmente traducibile: “Al andar se hace el camino, se hace el camino al andar”.

Un libro che si innesta nel filone di diari di viaggio alla Chatwin e che con il capolavoro chatwiniano trova il naturale metro di paragone. Non solo per l’ambientazione, ma anche per la scelta di alcuni argomenti di cui l’inglese aveva abbondantemente trattato (Butch Cassidy e Sundance Kid, le rivolte del 1921…).
Eppure quello di Sepulveda, seppure a tratti possa apparire un doppione di “In Patagonia” (ed essendo in ciò svantaggiato dalla posteriorità), manifesta una propria naturale originalità.

Certo, “In Patagonia” è a suo modo pionieristico e in quanto tale unico.
Patagonia Express” è meno enciclopedico, più emotivo, ed in generale da l’impressione di essere più “patagonico”, forse più genuino.
Come Chatwin, più di Chatwin. Forse.